Dopo la serata in discoteca una ragazza viene molestata ed inseguita mentre con il fidanzato torna a casa. Gli inseguitori accerchiano la vettura e con il casco rompono un vetro.
Il conducente cerca di scappare guidando la vettura lontano dai malviventi, ma sperona uno scooter con due degli amici degli inseguitori.
I due muoiono e si apre un lungo processo.
Di seguito la massima della sentenza di Cass. pen., Sez. I, Sentenza, 01/07/2022, n. 34032
Il canone dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, quale regola di giudizio che conforma la valutazione degli indizi e il metodo di accertamento del fatto, è da ritenersi rispettato anche nel caso in cui i comportamenti umani e le conseguenze da essi derivanti sono giudicati sulla base di regole di esperienza, quando non sono espressivi di una relazione di mera verosimiglianza e plausibilità, ma hanno una base razionale, seppur presuntiva. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretto, perché rispondente a uno standard di certezza o di alto grado di probabilità, l’accertamento dell’elemento rappresentativo del dolo di omicidio effettuato sulla base della regola di esperienza secondo cui l’investimento di un motociclo da parte di un’automobile, alla velocità di circa 70 km/h, può provocare la caduta e la morte delle persone in sella al primo).
Sentenza
- Con sentenza del 11 settembre 2020 il Tribunale di Bergamo, in rito abbreviato, ha condannato S.M. alla pena di 6 anni ed 8 mesi di reclusione, oltre statuizioni accessorie, per l’omicidio stradale (art. 589-bis c.p.) commesso in danno di C.L. e F.M., così riqualificata l’originaria imputazione di omicidio volontario.
In particolare, il giudice di primo grado aveva ritenuto provato che la fidanzata di S. era stata molestata da C. all’interno di una discoteca, che all’uscita della discoteca S. e fidanzata erano stati prima circondati, e poi inseguiti, da Carissimi e dagli altri componenti del gruppo di amici di questi; che, a bordo di una vespa, C. e F. avevano raggiunto la Mini su cui viaggiavano S. e la fidanzata, ed avevano volontariamente rotto, scagliandogli contro un casco da motociclista, il vetro della Mini; che S. allora aveva tamponato la Vespa facendo sbalzare e cadere al suolo i due antagonisti, che decedevano per effetto delle ferite. Il giudice aveva ritenuto, però, che non vi fosse il dolo di omicidio, e che l’investimento era stato soltanto il frutto di una manovra imprudente dovuta alla concitazione del momento.
- era, inoltre, in stato di ebbrezza (primo controllo 1,49 g/l; secondo controllo 1,51 ‘VI); il giudice di primo grado aveva calcolato la pena dell’omicidio stradale con riferimento al tasso alcolemico più basso ed applicato pena corrispondente a quella del reato dell’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. b).
1.1. Con sentenza del 14 maggio 2021 la Corte di assise di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto S. responsabile del reato di omicidio volontario, che gli era stato originariamente contestato, e, per l’effetto ha rideterminato la pena a lui inflitta in 11 anni e 4 mesi di reclusione.
Dati per provati tutti gli antecedenti avvenuti quella nottata come accertati dal giudice di primo grado, la Corte di assise di appello aveva ritenuto che lo speronamento della Vespa fosse stato volontario, e determinato da desiderio di vendetta; aveva anche ritenuto che S. fosse consapevole che dalla sua condotta sarebbe derivata la morte delle due persone che viaggiavano sulla Vespa.
La Corte di assise di appello ha, inoltre, condannato S. anche per la guida in stato di ebbrezza, ritenendo integrato il reato dell’art. 186 C.d.S., comma 1, lett. c), ed ha inflitto per tale reato una ulteriore pena di 4 mesi di arresto e 4.000 Euro di ammenda.
- Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l’imputato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi di seguito descritti nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. c.p.p..
Con il primo motivo deduce motivazione manifestamente illogica o contraddittoria con riferimento al dolo di omicidio, rilevando la illogicità nell’aver ritenuto la Corte che S. non fosse quella persona mite che aveva subito il diverbio descritto in sentenza dal giudice di primo grado, nell’aver ritenuto la Corte che S., che aveva la Vespa davanti, non aveva motivo per ritenere di essere inseguito da altre persone, nell’aver ritenuto la Corte che la Vespa viaggiasse al margine destro della corsia di marcia laddove in realtà viaggiava al centro della stessa.
Con il secondo motivo deduce inosservanza legge penale e motivazione manifestamente illogica o contraddittoria con riferimento all’aver ritenuto la Corte che la morte dei due antagonisti possa non essere stato l’obiettivo di S. nel momento in cui ha colpito la Vespa, perchè intendeva solo disarcionarli ma non ucciderli, e non aver tratto le logiche conseguenze di questo ragionamento che avrebbero dovuto far concludere per l’omicidio preterintenzionale.
Con il terzo motivo lamenta violazione del divieto di reformatio in peius e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla quantificazione della riduzione per le attenuanti generiche, concesse sia in primo che in secondo grado, ma con riduzione proporzionalmente inferiore nel secondo grado di giudizio; in mancanza di appello del pubblico ministero sul punto, la riduzione proporzionale inferiore configurerebbe una indebita reformatio in peius.
Con il quarto motivo lamenta erronea applicazione della legge penale con riferimento alla qualificazione del reato di guida in stato di ebbrezza dell’art. 186 C.d.S., comma 1, sub lett. c) in quanto, in presenza di una misurazione del tasso alcolemico in 1,49 g/l ed altra in 1,51 g/l, andava presa come riferimento quella più bassa, e perchè comunque il giudice di primo grado aveva riconosciuto tale ipotesi di reato, e quindi, in mancanza di appello, vi era divieto di reformatio in peius.
Con il quinto motivo lamenta motivazione manifestamente illogica o contraddittoria per non aver tenuto conto della riconosciuta attenuante della provocazione anche ai fini risarcitori, e per non aver tenuto conto dei versamenti già effettuati.
- La difesa dell’imputato ha chiesto la discussione orale.
Con requisitoria orale il Procuratore generale della Cassazione, Dott.ssa …, ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata con riferimento alla guida in stato di ebbrezza, ed il rigetto del ricorso per il resto.
I difensori degli imputati, avv. …, hanno insistito per l’accoglimento del ricorso.
Il difensore delle parti civili F.A.A., F.G., S.L., avv. …, ha chiesto dichiararsi il rigetto del ricorso.
Il difensore delle parti civili C.M., C.G., C.C., G.G., Ci.Ma.Cr., avv. Francesca Longhi, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Motivi della decisione
- Il primo motivo, dedicato all’elemento soggettivo del reato ed alla qualificazione dello stesso in termini di delitto colposo, è infondato.
Questo primo motivo di ricorso è dedicato al primo passaggio logico della decisione impugnata, ovvero al se S. abbia colpito la Vespa volontariamente (per vendetta) oppure per errore (a causa di una manovra imprudente dovuta alla concitazione della situazione).
A questo passaggio logico fondamentale, che regge poi le statuizioni successive della sentenza impugnata, le sentenze di merito hanno dato risposte diverse, perchè, come detto, il giudice di primo grado aveva concluso per la tesi dell’investimento colposo, il giudice di secondo grado ha ritenuto, invece, che lo speronamento della Vespa sia stato volontario. Nel motivo di ricorso in esame si tenta di riottenere la decisione che era stata presa in primo grado e si segue un percorso che nella sostanza è sovrapponibile a quello usato dal giudice di primo grado.
Il motivo, però, è infondato, perchè la sentenza di secondo grado resiste sul punto alle critiche che le sono state mosse ed è esente da errori di travisamento del materiale probatorio e di illogicità dei passaggi della decisione.
E’ del tutto irrilevante, infatti, che S. sia o meno una persona mite in grado di rappresentarsi e volere una vendetta che aveva come esito conclusivo la morte delle due persone che lo avevano provocato nel corso della nottata, perchè, come rileva correttamente la sentenza di appello a pag. 26, anche in una persona mite possono maturare, in situazioni di stress, estemporanei processi volitivi tesi a comportamenti violenti. Le considerazioni che sia la sentenza di primo che quella di secondo grado spendono sul carattere di S. sono, quindi, in un certo senso non necessarie alla ricostruzione dei fatti, che già sul piano oggettivo, ed indipendentemente da considerazioni sulla personalità dell’imputato, consente già da sola di giungere alla soluzione corretta, oltre ogni ragionevole dubbio, del quesito sul se lo speronamento della Vespa sia stato volontario o accidentale.
E’ rilevante, invece, ma non decisivo l’ulteriore argomento speso in ricorso, in cui si censura il passaggio della decisione impugnata che ha ritenuto che S. non avesse alcun motivo di compiere una manovra imprudente nella convinzione di essere inseguito, e minacciato, da altre persone diverse dai due occupanti della Vespa.
L’argomento difensivo è in sè corretto in fatto – perchè in atti vi sono, in effetti, elementi che giustificano la conclusione che S. potesse pensare di essere inseguito da altri componenti del gruppo, perchè C. e F., che viaggiavano sulla Vespa, erano soltanto due dei cinque/sei componenti del gruppo che lo avevano affrontato all’uscita della discoteca, e perchè la moto Yamaha, condotta da altro componente del gruppo, seguiva comunque la Vespa a poca distanza ed in astratto avrebbe potuto completare il lavoro fatto dagli occupanti della Vespa ed arrecare altri danni all’autovettura su cui viaggiava S. – ma non decisivo per la soluzione della questione, perchè la paura di essere colpiti da altro motoveicolo che proveniva da dietro non ha comunque impedito alla fidanzata di S. (che pure in ricorso si descrive, non si sa su quali basi, come presa dall’isteria) di vedere distintamente la Vespa davanti a sè, e non lo impediva allo stesso S., che, per di più, aveva anche la responsabilità della guida, cui consegue la maggior attenzione che il guidatore ha per sua natura, rispetto al passeggero, per ogni ostacolo che può esservi nello spazio che ci si accinge ad occupare con l’autovettura in movimento.
Ed anzi, lo stesso argomento proposto ulteriormente in ricorso, secondo cui, a differenza di quanto sostenuto dalla sentenza impugnata, la Vespa viaggiava, in realtà, al centro della corsia di marcia, contrasta con la tesi sostenuta nel motivo di ricorso della non volontarietà dell’incidente, perchè rafforza la tesi che S. abbia avuto la piena visibilità della Vespa di fronte a sè e l’abbia colpita non per errore, ma per un processo volontario della mente.
In definitiva, con il materiale probatorio a disposizione dei giudici del merito (su tutti lo spostamento a destra rilevato dal perito, pag. 18 della sentenza di primo grado, che la Mini effettua un mento, e con cui con evidenza va a cercare la Vespa) è davvero difficile seguire l’imputato, che nella sostanza sostiene di aver distolto l’attenzione dalla Vespa, pur avendola davanti a sè, quando, invece, è coerente con le regole della logica sostenere, come ha fatto la sentenza impugnata, che la Vespa abbia catalizzato a quel punto l’attenzione del ricorrente, che si è concentrato su di essa, e non ha resistito alla tentazione di sfruttare la differenza di peso e di velocità tra i due veicoli per regolare i conti con i suoi oppositori, che fino a quel momento, sfruttando la circostanza di essere in gruppo, lo avevano costretto ad uno scontro impari da cui stava uscendo perdente.
- Non è fondato neanche il secondo motivo di ricorso, dedicato alla possibile riqualificazione in omicidio preterintenzionale, in cui si sostiene che la morte di guidatore e passeggero della Vespa possa non essere stato l’obiettivo di S. nel momento in cui ha colpito il veicolo, perchè, pur accettando che l’imputato possa aver colpito volontariamente la Vespa, egli lo avrebbe fatto per disarcionare gli occupanti ma non per ucciderli.
E’ la stessa sentenza impugnata che contiene un argomento a favore della tesi della preterintenzione quando scrive a pag. 40 che è verosimile che lo speronamento della Vespa, pur volontario, non fosse direttamente orientato a cagionare la morte dei due giovani che erano a bordo.
Si tratta, però, di argomento che non è in contraddizione con le conclusioni raggiunte poi dalla Corte di assise di appello, che ha deciso per la condanna per omicidio volontario, rilevando che, pur se non c’era in S. l’intenzione di uccidere, il normale bagaglio di conoscenze dell’uomo medio avrebbe dovuto portare a ritenere come prevedibile che l’investimento di un motociclo a circa 70 km/h potesse cagionare la morte degli occupanti; a giudizio della Corte di assise di appello, S. si era, quindi, rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento morte e si era determinato ad agire comunque, anche a costo di cagionarlo come sviluppo collaterale o accidentale, ma comunque preventivamente, accettato della propria azione (pag. 40 della sentenza impugnata).
La sentenza impugnata ha, in definitiva, tratto la sussistenza nell’agente del dolo dell’evento-morte dal normale bagaglio di conoscenze dell’uomo medio in punto di conseguenze per la persona a bordo di un motociclo di un impatto a circa 70 km/h, perchè le altre frasi usate dalla pronuncia di secondo grado per sostenere la decisione (la sconsiderata manovra tenuta negli attimi precedenti l’impatto, l’incontenibile determinazione con cui l’imputato perseguì il suo obiettivo quale dimostrata dalla rabbiosa accelerazione) sono piene di aggettivi, ma non dicono nulla sulla volizione dell’evento-morte, mentre la circostanza che l’agente abbia omesso di verificare gli esiti del sinistro sulla vita delle persone che aveva scagliato a terra (non contestata come reato a parte, attesa la natura volontaria del reato stradale) non è necessariamente indice decisivo della volontà dell’evento-morte in un contesto di aggressione quale quella che S. aveva appena subito pochi secondi prima.
Pur se motivata soltanto sul normale bagaglio di conoscenze dell’uomo medio, si tratta, però, di una conclusione conforme agli approdi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità in fattispecie simili. La regola di esperienza costituita dal normale bagaglio di conoscenze dell’uomo medio è, infatti, un criterio di giudizio sulla esistenza o meno del dolo dell’evento che ha superato lo scrutinio della Corte di legittimità, che ha ritenuto che “si configura il delitto di omicidio volontario – e non quello di omicidio preterintenzionale, caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida – quando la condotta, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte dell’agente anche solo dell’eventualità che dal suo comportamento possa derivare la morte del soggetto passivo” (Sez. 5, Sentenza n. 11946 del 09/01/2020, PG in proc. Caciula, Rv. 278932; conforme, Sez. 1, Sentenza n. 3619 del 22/12/2017, dep. 2018, Marini, Rv. 272050).
Il caso di specie ha indubbiamente delle particolarità che inducono ad una riflessione meditata sulla esistenza o meno nell’agente del dolo dell’evento-morte come conseguenza della propria condotta. Occorre, infatti, considerare che sia il perito del giudice che il consulente tecnico del pubblico ministero hanno giudicato l’impatto tra la Mini e la Vespa di “lieve entità” (pagg. 18 e 19 della sentenza di primo grado). Occorre anche aggiungere che tra il momento in cui la Mini riparte dal punto in cui si era fermata per il semaforo rosso, ed in cui gli occupanti della Vespa, approfittando della sosta forzata, la raggiungono e le distruggono il lunotto, ed il successivo momento in cui la Mini colpisce da tergo la Vespa passano, in realtà, pochi secondi (stimati dal perito in circa 4 o 6), che servono al guidatore della Mini per effettuare quello scalare di marcia dalla prima alla terza che il testimone Ce.Ma. ha udito distintamente dalla propria abitazione posta in prossimità del luogo dell’incidente (pag. 31 della sentenza impugnata).
Sostenere che S. si sia rappresentato ed abbia voluto l’evento-morte dei due occupanti della Vespa come conseguenza della propria azione significa ammettere, quindi, che in quel brevissimo spazio temporale di pochi secondi egli si sia rappresentato che i suoi contendenti viaggiavano su un veicolo estremamente leggero e che non li avrebbe protetti dall’urto, quale una Vespa; si sia rappresentato che viaggiavano ad una velocità tale (71 km/h, secondo il perito; 54 km/h, secondo il consulente tecnico del pubblico ministero) che un urto, anche di lieve entità, avrebbe fatto volare al suolo per metri gli occupanti; si sia rappresentato che gli occupanti della Vespa viaggiavano senza casco, e che, quindi, un contatto con il suolo a quella velocità di una persona non protetta da casco avrebbe comportato un trauma cranico di intensità tale da portare, come avvenne, alla morte (trauma cranico-encefalico toracico per Carissimi; trauma cranio-cervicale per F.); e che, una volta rappresentatosi tutto ciò, egli abbia accettato la morte dei passeggeri della Vespa come conseguenza della propria condotta e si sia determinato, ciò nonostante, ad agire (conformemente allo schema della pronuncia Sez. 5, Sentenza n. 42973 del 27/09/2012, Ignatiuc, Rv. 258022: ricorre il dolo eventuale quando chi agisce si rappresenta come seriamente possibile, ma non come certa, l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi, decidendo di agire “costi quel che costi”, mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto. Fattispecie in tema di sinistro stradale in cui la Corte ha confermato la condanna per omicidio volontario del conducente di un furgone, da lui rubato che, per sottrarsi all’arresto, superava a velocità molto elevata alcuni semafori rossi e travolgeva un’auto provocando la morte di un passeggero).
Il processo di formazione del dolo può compiersi, in effetti, con immediatezza, anche con straordinaria immediatezza quale quella del caso in esame, essendo prospettabile tra le forme del dolo anche quello d’impeto. Il processo di formazione del dolo, però, è tanto più rapido ed immediato quanto più il mezzo utilizzato dall’agente è univocamente idoneo a determinare la causazione dell’evento. Il processo di formazione del dolo è, invece, naturalisticamente più lento quando l’agente si serve di un mezzo atipico, come avviene nei casi della c.d. vendetta stradale, ovvero, dell’utilizzo di un’autovettura quale arma, atteso che il tamponamento non è, di per sè, associabile con immediatezza alla morte del soggetto tamponato.
Nel caso in esame non è conosciuto, e non è, in realtà, conoscibile, in mancanza di ammissioni del diretto interessato, se in quei pochi secondi in cui S. è passato dalla prima marcia alla terza, ed ha portato a termine l’azione di tamponare la Vespa, il processo di accettazione dell’evento-morte come conseguenza della propria condotta si fosse già perfezionato.
Sostenendo, come fa la sentenza impugnata, che S. si sia rappresentato ed abbia voluto l’evento-morte dei due occupanti della Vespa come conseguenza della propria azione sulla base del normale bagaglio di conoscenze dell’uomo medio si trasforma il dolo dell’evento-morte del caso in esame in una sorta di presunzione, ma nella letteratura giuridica è stato, in effetti, sostenuto che nonostante il prevalente substrato naturalistico del dolo, è tutto il processo di accertamento dello stesso che si risolve, in definitiva, nello schema della praesumptio hominis.
D’altronde, quando hanno base razionale, ed esprimono una relazione non di mera verosimiglianza o di plausibilità, le regole di esperienza, sulla base delle quali vengono giudicati i comportamenti umani e le conseguenze che esse cagionano, per quanto abbiano base presuntiva, rispettano anche il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 25272 del 19/04/2021, Maurici, Rv. 281468: il canone dello “oltre ogni ragionevole dubbio” descrive un atteggiamento valutativo imprescindibile che deve guidare il giudice nell’analisi degli indizi secondo un obiettivo di lettura finale e unitaria, vivificato dalla soglia di convincimento richiesto e, per la sua immediata derivazione dal principio di presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto. In applicazione del principio la Corte ha annullato la sentenza che aveva utilizzato il parametro della “consistente verosimiglianza” o forte plausibilità per l’affermazione della responsabilità dell’imputato per il delitto di omicidio, qualificato come preterintenzionale, di un familiare scomparso di cui non era stato ritrovato il cadavere).
L’utilizzo della regola di esperienza del normale bagaglio di conoscenze dell’uomo medio, comportando l’utilizzo di una presunzione, comporta anche che la rappresentazione e volontà dell’evento-morte appartenga non più in senso naturalistico all’agente in concreto, ma al modello di agente, e comporta, inoltre, che l’indagine sul dolo si risolva in definitiva nella indagine sulla mera rappresentazione dell’evento-morte, pretermettendo la verifica sulla componente volitiva del dolo, e quindi sul se l’agente, che quell’evento morte aveva tutti gli elementi di giudizio per poter prevedere, quell’evento-morte lo abbia anche effettivamente voluto (pur nella forma minima dell’accettazione dello stesso). Questo approdo, però, non è anomalo, ma è coerente con la sistematica del dolo eventuale, in cui la decrescita del coefficiente di volontà dell’agente nei confronti dell’evento comporta che lo spazio dell’indagine psicologica venga occupato proprio da parte della componente rappresentativa del dolo.
Ne consegue che una conclusione quale quella raggiunta dalla Corte di assise di appello, che si è accontentata, in definitiva, di aver accertato, secondo uno standard di certezza o alto grado di probabilità, che S. avrebbe potuto prevedere l’evento-morte degli occupanti della Vespa come conseguenza della propria condotta, e che ha, pertanto, incentrato la indagine sul dolo essenzialmente sulla componente rappresentativa dello stesso, vada esente da vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione, e che il relativo motivo di ricorso debba essere respinto.
- Il terzo motivo, dedicato alla quantificazione della riduzione per le attenuanti generiche, è infondato.
Le attenuanti generiche sono state riconosciute all’imputato sia in primo che in secondo grado. In primo grado il Tribunale era partito dalla pena base di 12 anni di reclusione ridotta per effetto delle attenuanti generiche a 10 anni di reclusione; in secondo grado la Corte di assise di appello parte dalla pena base di 21 anni di reclusione e riduce per effetto delle attenuanti generiche a 19 anni di reclusione.
Il ricorrente lamenta che in primo grado la riduzione per le generiche era stata pari ad 1/6, in appello a meno di 1/10. A giudizio del ricorrente, ciò, in mancanza di appello del pubblico ministero, violerebbe il divieto di reformatio in peius previsto dall’art. 597 c.p.p., comma 3.
In realtà, nel sistema processuale non esiste un giudicato implicito relativo non alla pena applicata, ma al suo essere stata ridotta in una certa proporzione (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 19366 del 08/06/2020, Finizio, Rv. 279107; Sez. 5, Sentenza n. 15130 del 03/03/2020, Diop, Rv. 279086; Sez. 5, Sentenza n. 48036 del 30/09/2009, Avino, Rv. 245394; Sez. 6, Sentenza n. 19132 del 26/03/2009, Bussu, Rv. 244184).
Inoltre, quando, come nel caso in esame, per effetto del mutamento della qualificazione giuridica del fatto, il giudice di secondo grado si ritrova davanti ad una cornice edittale del tutto nuova rispetto a quella del giudice che lo ha preceduto, può muoversi all’interno di essa con cognizione piena, con il solo limite del non poter applicare una pena in concreto più alta di quella applicata dal giudice che aveva emesso la sentenza annullata (cfr. Sez. U, Sentenza n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653, nonchè, da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 6043 del 16/12/2021, dep. 2022, Ackom, Rv. 282628).
In fattispecie identica questa Corte ha già affermato, infatti, che, in caso di riqualificazione del titolo di reato, il divieto di reformatio in peius non comporta l’obbligo del giudice ad uniformarsi al trattamento sanzionatorio commisurato in precedenza (v. Sez. 3, Sentenza n. 9737 del 10/11/2021, dep. 2022, Hjijeb, Rv. 282840: “non viola il divieto di reformatio in pejus, il giudice di appello che, riqualificato il reato previsto dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, ai sensi dell’art. 73, comma 5, D.P.R. citato, non confermi la pena quantificata in primo grado nel minimo edittale, non essendo egli vincolato, per l’autonomia e la diversità del reato riqualificato, ad uniformarsi al trattamento sanzionatorio commisurato in precedenza”; cfr., inoltre, per l’applicazione dello stesso principio ad altri passaggi della determinazione del calcolo della pena, Sez. 4, Sentenza n. 44949 del 30/09/2021, Ibrahim, Rv. 282242; Sez. 1, Sentenza n. 26645 del 10/04/2019, Jerevija, Rv. 276196; Sez. 3, Sentenza n. 1957 del 22/06/2017, dep. 2018, Vallozzi, Rv. 272072).
Ne consegue che, nel caso in esame, il divieto di reformatio in peius è stato indebitamente richiamato, e che il motivo di ricorso deve essere respinto.
- Il quarto motivo di ricorso, dedicato alla condanna per la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, è fondato.
L’imputato era stato sottoposto ad esame per la misurazione del tasso alcoolemico e l’esame aveva dato il risultato di 1,49 g/l nella prima misurazione e di 1,51 g/l nella seconda misurazione.
La prima misurazione avrebbe dovuto far sussumere il fatto nel reato del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 186, comma 2, lett. b), (c.d. codice della strada), che sanziona il conducente di cui sia “stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro”.
La seconda misurazione avrebbe, invece, dovuto far sussumere il fatto nel reato del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 186, comma 2, lett. c), (c.d. codice della strada), che sanziona il conducente di cui sia “stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro”.
In presenza di due misurazioni, di cui una avrebbe dovuto condurre a riconoscere l’esistenza del reato meno grave e l’altra a riconoscere l’esistenza del reato più grave, il giudice di merito avrebbe dovuto valutare le specificità del caso concreto ed, in mancanza, applicare le regole della c.d. curva di Widmark, che, come noto, afferma che la concentrazione di alcol ha un andamento crescente tra i 20 e i 60 minuti dall’assunzione, per poi assumere un andamento decrescente stimabile, per approssimazione, in 0,15 g/l per ora.
Nel caso in esame, in cui la guida contestata era avvenuta alle 4.20 (si assume l’orario dell’incidente, che è certo) e l’alcoltest era stato effettuato alle 5.34 ed alle 5.41, è ragionevole pensare che la curva del tasso alcolemico fosse già nella fase della discesa, ma che, per la brevità del periodo di tempo intercorso tra la guida ed il momento del test, essa non potesse essere scesa che in modo minimale.
La conclusione del giudice di primo grado, che su tale materiale probatorio aveva ritenuto che, al momento in cui l’imputato stava guidando, la concentrazione nel sangue fosse inferiore ad 1,5 g/l aveva, quindi, una sua logica, sia pure nell’ambito di un giudizio di incertezza che giocava in favore dell’imputato.
Il giudice di secondo grado ha, però, ribaltato anche questa parte della decisione, pur in assenza sul punto di una impugnazione del pubblico ministero, ed ha inflitto all’imputato la pena per il reato più grave della lett. c), senza, però, spiegare il perchè di questa decisione.
Questo punto della sentenza di secondo grado, infatti, manca completamente di motivazione. Si comprende che la Corte di assise di appello ha condannato per la lett. c), soltanto perchè la stessa ha assunto come pena base – previe attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate – mesi 8 di ammenda e 8.000 Euro di ammenda, che sarebbe pena illegale se inflitta per il reato della lett. b) (che è punito con l’ammenda da Euro 800 a Euro 3.200 e l’arresto fino a sei mesi), ed è invece compatibile con quella edittale del reato della lett. c) (punito con l’ammenda da Euro 1.500 a Euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno; la maggior pena pecuniaria assunta dalla Corte di assise di appello potrebbe essere frutto dell’aumento per l’aggravante dell’orario notturno del comma 2-sexies dell’art. 186, che, come noto, aumenta la sola pecuniaria, e non è bilanciabile con le attenuanti per effetto della previsione speciale del comma 2-septies dello stesso articolo, anche se va detto che anche su questo punto la sentenza è totalmente priva di motivazione, e quindi ci si limita ad immaginare il percorso logico del giudice di secondo grado).
Ne consegue che, sia sotto il profilo della violazione del divieto di reformatio in peius sia sotto quello della mancanza totale di motivazione, la condanna dell’imputato per la contravvenzione di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c), deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio.
- Il quinto motivo di ricorso, dedicato alle statuizioni civili, è fondato.
In esso si deduce motivazione manifestamente illogica o contraddittoria perchè la sentenza impugnata ha riconosciuto l’attenuante della provocazione nel calcolo della pena, ma non ne ha tenuto conto poi ai fini civili.
Nel percorso logico dei giudici di secondo grado l’attenuante non ha rilievo ai fini civili, essendo estranea al paradigma dell’art. 1227 c.c., comma 1, che presuppone l’esistenza di un fatto colposo del creditore concausa dell’evento-danno, mentre lo schema della provocazione presuppone un fatto volontario della vittima ed, in reazione, un comportamento consapevole e volontario del soggetto agente, che è l’unica causa del danno.
Questo percorso logico, però, si pone in contrasto con quello seguito dalla giurisprudenza di legittimità, che già in tempi risalenti aveva rilevato che la provocazione riconosciuta ai fini penali ha un peso differente a seconda che si discuta di risarcimento del danno patrimoniale o del danno non patrimoniale, in quanto, in relazione ai danni non patrimoniali, la provocazione può avere rilevanza come uno degli elementi che possono influire sulla liquidazione equitativa dei danni (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 7718 del 13/05/1999, Fusetti, Rv. 213959: l’attenuante della provocazione non ha incidenza sulla liquidazione dei danni patrimoniali, non potendo trovare applicazione l’art. 1227 c.c., comma 1, richiamato in materia extracontrattuale dall’art. 2065 c.c., atteso che non è ipotizzabile il concorso di colpa del danneggiato nella produzione dell’evento lesivo: la provocazione, anche se induce una spinta emotiva, non si inserisce nel rapporto causale vero e proprio tra il fatto reato che produce il danno ed il suo autore. In relazione ai danni non patrimoniali, la provocazione può avere rilevanza non come concorso di colpa bensì come uno degli elementi che possono influire sulla liquidazione, necessariamente equitativa, di tali danni, affidata al criterio discrezionale del giudice di merito; conforme Sez. 5, Sentenza n. 21952 del 20/02/2001, Rainer, Rv. 219459).
In tempi più recenti questo orientamento si è ulteriormente consolidato, perchè riproposto da Sez. 1, Sentenza n. 38206 del 11/07/2019, Borgarelli, Rv. 276858, secondo cui “sussiste l’interesse della parte civile a contraddire, proponendo impugnazione o resistendo all’impugnazione dell’imputato, in ordine alla sussistenza degli elementi circostanziali dei futili motivi e della provocazione, trattandosi di elementi direttamente incidenti sulla concreta dimensione offensiva del fatto, che assumono rilievo ai fini dell’accertamento della responsabilità civile, potendo l’esito del giudizio penale influenzare la liquidazione del danno da riconoscere nella sede civile a titolo di pregiudizio non patrimoniale”, ed in termini più generici da Sez. 1, Sentenza n. 574 del 09/07/2019, dep. 2020, R., Rv. 278492, secondo cui “sussiste l’interesse della parte civile a contraddire, resistendo all’impugnazione dell’imputato, in ordine alla sussistenza degli elementi circostanziali del reato (nella specie, la contestata sussistenza dell’aggravante della premeditazione) trattandosi di elementi direttamente incidenti sulla concreta dimensione offensiva del fatto che assumono rilievo ai fini dell’accertamento della responsabilità civile”.
La sentenza impugnata non ha fatto applicazione dell’orientamento giurisprudenziale sopra evidenziato, e, pertanto, in punto di statuizioni civili, la pronuncia deve essere annullata con rinvio.
Non merita accoglimento, invece, l’argomento proposto nella parte finale del motivo di ricorso, in cui si evidenzia che il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto di alcuni versamenti già effettuati, perchè, come evidenziato dalla difesa di parte civile nel corso della discussione orale, l’esistenza di versamenti in acconto intervenuti nelle more è questione non di vizio della pronuncia impugnata, ma di esecuzione della stessa, essendo naturalmente precluso porre in esecuzione, in parte qua, un titolo nella misura in cui vi è stato adempimento spontaneo della parte obbligata.
- Le parti civili si sono costituite anche nel giudizio di cassazione ed hanno chiesto la condanna alle spese di questo grado. In ragione dell’esito del giudizio, che è di parziale annullamento con rinvio, esse non possono ottenerle, dovendo essere rimessa la relativa decisione al giudice del rinvio (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 25469 del 23/04/2014, PC in proc. Greco, Rv. 262561: la parte civile non può ottenere la rifusione delle spese processuali all’esito del giudizio di legittimità che si è concluso con l’annullamento con rinvio, ma può far valere le proprie pretese nel corso ulteriore del processo, in cui il giudice di merito dovrà accertare la sussistenza, a carico dell’imputato, dell’obbligo della rifusione delle spese giudiziali in base al principio della soccombenza, con riferimento all’esito del gravame).
- In conformità al principio di formazione progressiva del giudicato, la sentenza impugnata diventa irrevocabile in punto di accertamento della responsabilità dell’imputato per il reato di cui al capo A) dell’imputazione e di pena allo stesso inflitta come conseguenza del giudizio di responsabilità (Sez. U, Sentenza n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 280261).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo B) dell’imputazione e alla quantificazione del risarcimento del danno in favore delle parti civili, e rinvia per nuovo giudizio su tali punti alla Corte di assise di appello di Milano, cui rimette la regolamentazione delle spese di parte civile. Rigetta il ricorso nel resto. Dichiara per l’effetto irrevocabile la sentenza con riguardo al reato di cui al capo A) dell’imputazione.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 1 luglio 2022.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2022